MOSTRI E DETRITI NELLA LINGUA DI OGNI GIORNO

di Lamberto Spina

Per i vicoli mal tenuti dei nostri luoghi comuni linguistici circolano con vischiosa pigrizia espressioni secolari, di cui si è perso il senso originario, mischiate a orridi neologismi, fortemente calcati sull’attualità più fugace, e quindi destinati a diventare ben presto dei ruderi.

Così, di chi voglia impegnarsi in una qualunque attività concorrenziale, si dice che si appresta a “scendere in lizza”, magari con la “lancia in resta”. Se poi l’impresa è aleatoria, si potrà dire che la si è voluta “spezzare”, la lancia, almeno a titolo dimostrativo, come in un torneo. Quando si tratti di muoversi rapidamente, anche in modo figurato, lo si farà “ventre a terra”, “a spron battuto”, “a briglia sciolta”. Tutte espressioni la cui origine da una civiltà di cavalli e cavalieri, che fu la nostra ma che non lo è più da molto tempo e per molte ragioni, è chiara e manifesta. È vero che, fra le più lungamente abusate, per quanto riguarda il movimento, c’è anche una similitudine automobilistica, penso nata agli ingenui primordi del motore: “partire in quarta”, che è del tutto sballata tecnicamente, come non vale nemmeno la pena di precisare.

Tuttavia, quella di cui si è provato a dare pochi e piccoli esempi è un’attrezzatura linguistica ormai arrivata alla fine. Ora si fa largo uso di metafore sportive, calcistiche in particolare. Si “scende in campo”, si “converge al centro”, ci “si agita in panchina”. Non di rado, certo più spesso che sul reale terreno di gioco, si fanno “autogol”: una pratica autolesionista, in cui, secondo i giornali, spiccano gli uomini politici, naturalmente quelli della parte avversa, ma anche della propria, quando diventano irritanti.

I giornali, appunto. I giornali, noi lo sappiamo bene, hanno esigenze di grafica e di spazi, e problemi di tempo – angoscianti per i quotidiani – che i lettori non sempre possono comprendere. Accade che, specialmente nei titoli, si debba fare qualche acrobazia; e allora sono benvenute le parolette evocative, pregnanti, che occupano un posticino, evitando definizioni troppo lunghe. Pensiamo a “007”, il cui impiego è diventato ampio e debordante, dai tempi in cui apparve il primo film della serie. Si sa che le cifre stavano a indicare la collocazione gerarchica del celebre James Bond. Quindi c’erano anche altri numeri, più bassi e più alti. Non importa: “007” è l’agente per antonomasia, e allora, se si deve parlare di poliziotti si dice “007”; che poi va bene per poliziotti e investigatori di ogni genere, segreti e palesi, pubblici e privati, dal questore all’ispettore del fisco, dalla guardia di finanza al metronotte.

Pare che la memoria storica, almeno quella collettiva (se qualcosa del genere esiste), vada sempre più accorciandosi; tuttavia chi non sia un infante, per anagrafe o per altro, conoscerà, per averlo vissuto, per averne sentito parlare o per averne letto, l’ultimo decennio del secolo scorso, con tutto quel che è accaduto nel nostro Paese. Ebbene, fu proprio all’inizio di quel periodo che un giornalista coniò il vocabolo “Tangentopoli”, con esso intendendo definire Milano, quale città (dal greco “polis”) delle tangenti (dal latino “tangere”). Da allora i mezzi di informazione, accantonata la prima parte, si sono scapricciati a inventare le parole più stupide, sempre terminanti in “poli”, ridotta allo stato di desinenza squalificante, per indicare scandali, ruberie, malversazioni. Così abbiamo avuto mostri come “affittopoli” o “passaportopoli” e tanti altri. E l’uso non accenna ad esaurirsi: è troppo comodo.

Ci fu un precedente negli anni Settanta, in occasione dello scandalo del Watergate, che costò a Nixon la presidenza degli Stati Uniti. Allora, naturalmente, cominciarono gli americani, e si ebbero l’Irangate, il Russiagate, e via così. In Italia ci si è accodati (poteva essere altrimenti?), e abbiamo avuto i nostri “gate” (importa qualcosa che Watergate fosse il nome di un palazzo di Washington, e che “gate” possa significare “cancello”, “varco”, “passaggio”? no, certo). Siamo arrivati, nel caso della famosa stagista della Casa Bianca, che occupò la scena politica internazionale nell’estate del ’99 (tempi felici), a leggere di un “Monicagate”. Possibile che chi l’ha scritto non abbia provato a leggerlo pronunciandolo in italiano?

E fosse questo il solo prestito dall’inglese. Purtroppo, e non da oggi, assistiamo, e talvolta, ahimè, partecipiamo ad una sorta di prostituzione culturale, che non è la feconda contaminazione dalla quale sempre sono scaturiti i modi più vivi dei linguaggi. No, sono pedisseque e mal digerite acquisizioni, nemmeno giustificate dalla presunta superiore capacità di sintesi dell’inglese rispetto all’italiano. Che cosa si guadagna a dire, e a scrivere, “system” anziché sistema? O “car wash” al posto di lavaggio auto? Oppure “hair stylist” invece di parrucchiere?

A proposito, ricordo di aver visto, in una delle nostre città più belle e civili, proprio fianco a fianco, due negozi che avrebbero esposto in altri tempi, e forse lo avevano fatto, due oneste insegne recanti l’indicazione delle rispettive attività: “parrucchiere” l’uno, “frutta e verdura” l’altro. Invece no: in mezzo alla vetrina del primo si leggeva, appunto, “hair stylist”, e sulla porta del secondo “al frutaròl”. Accanto al provincialismo pretenzioso, l’appello furbastro alle sane tradizioni, ai sapori genuini, al caro dialetto che nessuno parla più. Sono nato e cresciuto in un piccolo paese in anni remoti, quando quelle che oggi sono tradizioni erano il quotidiano presente, e il dialetto del luogo era la prima lingua. Non ho mai visto negozi, osterie, botteghe artigiane, i cui titolari inalberassero scritte in dialetto. Al contrario, i titolari si sforzavano di scrivere, o di far scrivere, sia le insegne sia le eventuali indicazioni connesse alle loro attività, in italiano; un italiano magari sbilenco, ma che era il migliore possibile. Ora sembra che molti esercenti si vergognino di una scritta in quella che dovrebbe essere la loro lingua, o almeno quella della loro nazione. E magari si trattasse di nomi copiati dall’estero. No. Si lavora di fantasia, e ne escono aberrazioni, costruite però con parole inglesi, o quasi. Il risultato è che per sapere che cosa si vende in quel negozio bisogna entrarci. E spesso non basta; ma questo è un altro discorso.

Sto divagando, e finirò con l’apparire un lodatore dei tempi passati. No, non ho nostalgie: mi va benissimo il nostro tempo, tanto di meglio non c’è.

Voglio restare alle parole. Ciascuno poi parli e scriva come gli pare, secondo la sua intelligenza e il suo gusto, che nelle parole si evidenzieranno per quel che sono.

Temo solo che la pratica di un lessico abborracciato e l’indifferenza ai valori semantici compromettano (ma forse è già tardi) la possibilità non solo di formulare, ma proprio di formare, idee precise e pensieri corretti.

In una delle scene più significative di quel capolavoro dimenticato del neorealismo cinematografico italiano che è “Umberto D.” di Vittorio de Sica, la giovanissima domestica, sedotta e abbandonata da un militare di leva, confida il proprio dramma senza via d’uscita all’anziano poverissimo professore in pensione, il quale osserva desolato come cose del genere accadano a chi non conosce la grammatica. A rilevare come l’ignoranza sia la madre di molte disgrazie. Non a caso il ruolo di protagonista del film non fu interpretato da un attore di professione, bensì da un noto e stimato linguista. Ma forse è l’ignoranza incolpevole che conduce a cattivi esiti, mentre quella, oggi tanto diffusa, più presuntuosa e becera, magari porta fortuna.

Breve poscritto.

Quando i gentili lettori avranno sotto gli occhi queste pagine, la nuova moneta si sarà affermata e i traumi connessi saranno stati assorbiti. Non so se saranno già evidenti i tanti vantaggi che ci sono stati promessi. Un beneficio dovremmo averlo ottenuto: sarà sparito, o si sarà attenuato, l’uso smodato di “euro” come prefisso. Non si parlerà più di “euroscetticismo” o di “euroentusiasmo” perché si potrebbe fare confusione. L’euroscettico sarà scettico nei confronti dell’Europa o della moneta? E gli “eurogol” saranno gol spettacolari degni di una ribalta europea, o semplicemente pagati in “euro” ai calciatori che li hanno realizzati? Speriamo che almeno questo tormentone sia cessato; e se qualcuno ci riempirà le tasche di “euro” in quanto moneta come tanti ce le hanno riempite di “euro” come prefisso saremo tutti benestanti.