L’IMPOSSIBILITÀ DEL SENSO:

LA MEMORIA DELLA SHOAH

di Chiara Ortuso

Il 27 gennaio non è un giorno qualunque, non è una di quelle date da scorrere velocemente sulle pagine di un calendario stracolmo degli impegni che, quotidianamente, sembrano affliggerci. No. Il 27 gennaio è la giornata della memoria, del ricordo delle vittime dell’Olocausto, momento indispensabile di riflessione capace di chiamare nuovamente ciascuno di noi al dovere di non dimenticare, di non obliare la brutalità del massacro nazista perpetrato a danno di uomini ridotti a cifre, ad entità privi di dignità, di diritti, di speranza; equiparati ad inutili oggetti da sfruttare e poi “epurare” nell’infernale macchina dei camp di sterminio. Molti ignorano che delle sei milioni di vittime della Shoah circa la metà fossero zingari, rumeni, omosessuali, prigionieri politici. Un milione e mezzo di bambini fu trucidato nelle camere a gas non appena giunto nel, tristemente noto, lager di Auschwitz-Birkenau.

Altri adolescenti e giovani furono oggetto di terribili esperimenti da parte del dottore Mengele, ‘il medico della morte’. I deportati più fortunati vennero spogliati dei loro abiti, ricoperti di luride casacche a righe, marchiati come bestie da macello con un numero su di un braccio e sottoposti a lavori forzati sotto il gelo invernale o, viceversa, sotto il torrido caldo estivo dei campi. Nutriti con una brodaglia e mezzo tozzo di pane, picchiati e torturati dalle SS naziste e dai loro stessi compatrioti, resi dai tedeschi aguzzini del loro medesimo sangue in cambio della sopravvivenza, furono ridotti ad automi senza cuore, a macchine il cui unico scopo era quello di arrivare al giorno seguente. Ed è forse per le suddette ragioni che molti sopravvissuti dai campi di sterminio non riuscirono a trovare una parvenza di normalità, ostili verso il destino che li aveva sottratti a tanto orrore, incattiviti nei riguardi dell’esistenza in sé, impossibilitati a dimenticare gli incubi, le paure e gli spettri di un passato prossimo a tornare, mentre i loro più cari amici e familiari erano andati incontro a ciò che sembra non avere luogo, la fine dell’esistenza. E molti ancora, impossibilitati a credere in un Dio, in una religione incapace di offrire giustificazioni a cotanta cattiveria umana, preferirono inabissarsi nel silenzio, nascondendosi per anni in un doloroso mutismo. Alla luce di quanto detto ed in contrasto con l’imperante e brutale fenomeno storico del negazionismo, è per noi posteri assolutamente doveroso ricordare questa terribile pagina di storia, dando voce a due testimoni che, inghiottiti dalla “banalità dle male”, non hanno più parole per raccontare: Primo Levi ed Elie Wiesel, entrambi scampati all’orrore di Auschwitz. Nella Notte Wiesel così scrive: “Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fato della mia vita una lunga note e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”. E mai potremmo scordare le toccanti parole che aprono il capolavoro di P. Levi Se questo è un uomo: “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole, scolpi tele nei vostri cuori, stando in casa, andando per via, coricandovi, alzandovi; ripetetele a vostri figli o vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca. I vostri nati torcano il viso da voi.” Dov’era Dio ad Auschwitz? Si è chiesta, in arroventate pagine, la teologia ebraica, e, facendo ad essa eco, ci domandiamo tutti noi, immergendoci in una profonda riflessione sull’abominio del genocidio. Dovremmo forse, tuttavia, chiederci: dov’era l’uomo? Dov’era l’umanità nel bel mezzo della tormenta dello sterminio?Forse l’unica risposa possibile, se mai se ne possa riscontrare qualcuna accettabile nel delirio lucidamente messo in atto dalla crudeltà e dalla barbarie, è quella secondo cui l’uomo aveva perso Dio e, perdendolo, aveva in fondo smarrito se stesso e l’alterità nell’impossibilità dell’essere, dell’essere umano.