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ARTICOLO DI CHIARA ORTUSO
“Andrà tutto bene”, dal paradigma del si dice alla ridefinizione del concetto di umano.
Carissimi lettori, ed è a voi che mi rivolgo, in uno sforzo di speculazione volto a riflettere circa il profondo segno di questa frattura epocale, capace di interrogarci sulla ricerca di un significato che sembra essersi ormai perduto tra le roccaforti del “si dice”, della chiacchiera fatua, dell’equivoco vano; della mera curiosità sintetizzata ed individuata in quell’asserzione comune, in quell’“andrà tutto bene” che, nel linguaggio di un homo ammansito dalla società disciplinare tipica del paradigma post-fordista neoliberista, assume l’accezione della necessità. Una necessità che, ad un’analisi tout court e ad uno sguardo più attento, si trasforma, ribaltandosi, in un balbettio, in una eliotiana terra desolata: in un vuoto di intenti, in una dimensione di annichilimento e ripiegamento del senso stesso. Perché non è forse vero che ricercando in uno fantomatico slogan pubblicitario un possibile sentiero per liberarsi da quella ulteriore manifestazione della volontà di vivere che risulta ancorata al bisogno individuale di “esserci”, essere nel mondo malgrado tutto, si viene, paradossalmente, a trasvalutare quel linguaggio che cerca di dire la res stessa, ma che poi dimentica, disperdendosi nell’alveo analitico del significato, la medesima cosa significata? O forse, mi chiedo e vi chiedo, l’immensa portata della questione imporrebbe, sommessamente, l’obbligatorietà di un’afasia, identificata propriamente con un’impossibilità di dire, dal momento che le categorie antropologiche di quell’essere che sembra aver perso la sua dimensione, disperdendosi in una fenomenica realtà priva dell’orizzonte oltremondano, si inseriscono in una prospettiva di estrema lontananza dalla reale richiesta di un senso stesso? Memento Tractatus di Wittgenstein: di ciò di cui non si può parlare si deve tacere (prop. VII). E tuttavia, dobbiamo pur ammettere, che la domanda sul significato stesso di questo assurdo accadimento sembra effettivamente emergere, autoimponendosi assertivamente, dinnanzi ad una ontologia che si riscoprirebbe nel volto sfigurato del patologico. Oserei parlare, a tale proposito forse spingendomi un po’ oltre, di un’ontologia del patologico, quella a cui stiamo oggigiorno assistendo, che mescola le carte dell’humanitas riportandola, più che al suo stadio terminale, alla sua prima fonte, alla sua origine. A quella relazione con una sacralità che, lungi dall’ipostatizzarsi in una mutevole aura di utilitaristica panacea, andrebbe rivisitata a partire dallo stesso concetto di Dio. Perché forse solo un Dio può salvarci, risollevando lo sguardo verso quel firmamento che, affastellati nelle nostre deiezioni quotidiane, si è smarrito nei meandri di esistenze frustrate, nientificate, rinchiuse nel solipsismo, nella mancanza di essere. E invece il bisogno di cura, cura intesa in quanto inatteso accadere, come libertà pur nella necessità, di prendersi cura dell’altro, sta tentando di infrangere l’atomizzazione dell’esserci, riportando la mens verso una possibile, ma mai unica, ridefinizione. Quella di esseri per la morte, alla costante riscoperta di una sinfonia che si esplica nel poter essere, nella possibilità; in una potenza che, contrariamente al finalismo aristotelico, pare, hic et nunc, precedere ogni sua attualizzazione. Le intemperie da Covid, insomma, andrebbero forse lette nella chiave di un evento capace di tracciare il limite di una riscoperta dell’umano a partire dalla ridefinizione del concetto stesso di umanità.