RACCONTO DI ROBERTA SGRÒ

“Ed era così che...”

Leo correva tra le spighe di grano, come in una scena di un vecchio film in bianco e nero, una di quelle usate per uno spot pubblicitario, o per una foto dei social network. Il sole a baciarlo, ad illuminarlo, l’energia a spingerlo, a farlo sorridere. Leo allora aveva solamente sette anni e amava stare in mezzo alla natura. Adorava le vacanze in campagna dai nonni e il suo essere bambino, al contrario dei suoi compagni di classe che prediligevano il mare e non vedevano l'ora di crescere per fare ciò di cui sentivano parlare i ragazzi più grandi: andare in discoteca o in giro per locali. Leo non capiva tutta quella fretta di diventare grandi e non aveva affatto voglia di scoprire come sarebbe stato essere adulti, indipendenti, poter decidere di allontanarsi dai propri genitori, dai propri cari. Ai ragazzi più grandi vedeva fare cose che non comprendeva. Erano spesso intenti a commentare o conquistare una bella ragazza poco vestita, e spesso avevano in mano una bottiglia. Leo era molto più semplice, si sentiva felice nella sua situazione da bambino, per lui sarebbe stato meglio se tutto fosse rimasto in quel modo e se le sue vacanze fossero state così, per sempre. Avere una casa, una moglie, un cane, un figlio, un lavoro, una carriera, un televisore o addirittura un'automobile da pagare ogni mese per molti anni, avere la lavatrice in funzione al mattino o la sera tardi, dover passare ore in quei noiosi reparti di ortofrutta o surgelati chiedendosi cosa sarebbe stato più veloce da preparare la sera per cena… Tutto questo, l’essere adulti, “grandi”, per Leo avrebbe potuto aspettare! Non aveva alcuna fretta, ma timore in realtà. Quello che proprio non riusciva a spiegarsi era il perché i suoi compagni di classe cercassero così tanto di somigliare ai ragazzi molto più grandi di loro. Ad ogni età bisognava avere i giusti pensieri, almeno così gli ricordava sempre la mamma. I bambini dovevano pensare a giocare, divertirsi, imparare, cercare risposte, e crescere; gli adulti dovevano, invece, “rimboccarsi le maniche” per aiutarli a farlo piuttosto che essere affetti dalla sindrome di Peter Pan! Leo aveva sentito parlare di quel cartone animato della Walt Disney, ma non aveva mai avuto voglia di vederlo. Secondo lui non sarebbe stato bello neppure non crescere affatto! Ricordava come fosse diverso per lui il gusto della zuppa quando era più piccolo: non sapeva di niente. Adesso, invece, la gustava senza farsi pregare, accompagnandola a delle polpettine di carne per avere più energie in corpo. Ricordava anche quanto fosse complicato non uscire dai margini quando colorava, mentre ora riusciva perfettamente a rispettare gli spazi e i bordi. Rammentava come il tempo gli avesse fatto vedere tutto in modo differente quindi crescere non lo trovava sbagliato, semplicemente non aveva fretta di farlo. Leo era sempre stato vivace, sin dai primi mesi di vita. La morte prematura del padre non lo aveva spento e neppure vedere triste la sua mamma che, nonostante il lutto, era riuscita a fargli vivere bene la sua infanzia. Il babbo gli mancava sempre; ogni tanto, quando si stendeva sul tappeto arcobaleno della sua camera, immaginava di giocare con lui, di mangiare panini pieni di carne tanto da sporcarsi tutto il muso con la maionese, o di chiamarlo arrabbiato perché non gli aveva comprato le caramelle. Però non si sentiva malinconico, la mamma gli aveva spiegato che il babbo era lì con loro, solo che non potevano vederlo, era in un’altra dimensione chiamata “paradiso”. I suoi compagni di scuola spesso lo avevano deriso per il fatto di non avere il papà ma a Leo non importava, no. Perché lui era ancora un bambino ed aveva il diritto di immaginare e di credere che suo padre esistesse ancora. Dopotutto, la maestra di religione lo aveva lasciato nel dubbio che non si scompaia del tutto chiudendo gli occhi per sempre e così anche l'insegnante di storia riguardo l'esistenza di un'altra dimensione. Poteva, quindi, continuare a crederci! Leo ripensava alle sue vacanze in campagna, con il sole, tra il grano, immerso in un cielo diverso, più vivo. Pioveva e Leo contava i secondi che passavano tra una goccia di pioggia e l'altra, gli stessi che si ridussero velocemente e che, con l’arrivo dei tuoni, fu impossibile contare. Era ormai finita la bella stagione, ma Leo si disse che avrebbe potuto tranquillamente attenderla nuovamente. Quello era il tempo dei compiti, delle ore in macchina con la mamma per via del traffico, spese ad indovinare quando il semaforo avrebbe cambiato colore. «Via!» urlava Leo, indicando la strada e la mamma, la sua bellissima mammina, sorrideva sempre. In quel momento la sua mamma era in cucina, con un'enorme calcolatrice e molti fogli davanti a sé: probabilmente stava facendo i conti, lei li faceva spesso! Almeno una volta al mese perdeva ore a farli, diceva che bisognasse fare sacrifici ma, con il tempo, si sarebbe potuto ottenere ciò che si desiderava. Lei era riuscita ad aprire un negozietto di antiquariato, lì c’erano oggetti di ogni tipo che Leo amava osservare, a volte li spolverava. La mamma gli aveva fatto realizzare un cartello super colorato con una scritta al centro in caratteri cubitali: “Dove passato e presente si incontrano”. Leo si era impegnato moltissimo per renderlo il cartello più bello, quasi stesse gareggiando; come se la mamma avesse scelto proprio il suo tra quelli di mille altri bambini. Era stato emozionante e lo era vedere il suo lavoretto appeso alla vetrina vicino alla porta, visibile a tutti i passanti. A Leo sarebbe piaciuto avere almeno un fratellino, o una sorellina, perché i suoi compagni di classe non volevano passare il tempo libero con lui, lo trovavano noioso. Ma lui non si sentiva affatto così, anche se ormai aveva fatto l’abitudine a giocare da solo... Noioso, per lui, era stare seduti a guardare giornalini con i trucchi per la Playstation, o stare per ore a guardare la televisione. Secondo Leo era necessario correre, parlare, mangiare il gelato in estate e una buona cioccolata calda con tanta panna in inverno; era bello camminare, stendersi sul prato, andare in bicicletta, inventarsi storie divertenti o spaventose, dividersi i ruoli e vivere come in prima persona i personaggi di quella storia, armandosi di forbici e cartone per creare spade e scudi. Leo, però, aveva dei cugini, poco più grandi di lui, e, quando andava a trovare zia Mery al mare, passava intere giornate con loro: ridendo, giocando, scherzando… Loro gli volevano bene. Ogni tanto gli facevano i dispetti perché era il più piccolo, ma nulla di grave e per farsi perdonare, poi, lo aiutavano a preparare la pizza. Stendevano insieme su una teglia gigante l’impasto e lo condivano come volevano, solitamente con moltissime mozzarelline, patatine e gli immancabili würstel. Poi mettevano la teglia nel forno a legna che si trovava in taverna e aspettavano che si cuocesse, raccontandosi aneddoti letti probabilmente in un libro di barzellette. Quelle erano le cose che Leo amava e soprattutto il momento in cui alla mamma serviva l'enorme fetta di pizza, che lei gustava dimenticando ansie e preoccupazioni, chiacchierando con la sorella fino a tardi. Ed era così... che ricordava la sua infanzia, quel Leo che oramai andava alle superiori ed era al terzo anno di un indirizzo umanistico, anche se in realtà era stato bocciato al primo. Aveva inizialmente scelto l’agrario, convinto che avrebbe potuto guadagnarsi da vivere coltivando, come avevano fatto i suoi nonni. Ma non era portato per le materie che si studiavano in quell'istituto, nonostante amasse la natura, la campagna, il verde, l’aria. No, non poteva essere quello il suo futuro, anche perché i nonni lo avevano lasciato proprio in quel suo primo e fallimentare anno scolastico, quando lui era poco più di un adolescente; si erano addormentati sereni e il mattino dopo tutto era un mucchio di cenere. Quello sarebbe stato per Leo un trauma da cui non si sarebbe più ripreso: l'immagine di loro che bruciavano, di quelle vite che cessavano di esistere, di quel luogo che sfioriva appassendo velocemente a causa delle fiamme, mandando in fumo il luogo dei suoi ricordi più belli.

Loro erano tutto ciò che gli era rimasto del padre, essendo anche lui stato figlio unico ed avendo tutti i parenti lontani e mai conosciuti. I nonni se n’erano andati, l’avevano lasciato e Leo cominciava a dubitare di questo “paradiso”, soprattutto dopo aver divorato interi libri su quella che per lui, oramai, era solo una convinzione salvifica: si credeva a tutto ciò per soffrire di meno. La madre, nel frattempo, era riuscita a far fruttare la sua attività. C’era lui nel pomeriggio a darle una mano con i clienti, con la contabilità nel weekend; da “una volta al mese” i conti bisognava farli “una volta a settimana”. C’erano le spese, i viaggetti nel fine settimana per rifornire il negozio, i restauri da pagare, gli ordini della clientela. Quella parte della sua vita l’amava, nonostante tutto. Perché sua madre si era ripresa, anche se rifiutava ogni uomo che la corteggiasse, era riuscita ad ottenere la routine che desiderava, a stare accanto al figlio e sostenerlo nonostante i mille impegni e, d’altro canto, Leo stava apprendendo un lavoro ed ampliando le sue teorie e nozioni umanistiche. Studiando sociologia e psicologia era solito porsi domande, osservare gli atteggiamenti e le richieste degli altri. Avrebbe tanto anche voluto specializzarsi nella decorazione della ceramica, magari accedendo ad un’accademia: c’erano vasi che aveva osservato con talmente tanta dedizione che, a volte, immaginava che potessero raccontare la propria storia. Una delle materie in cui eccelleva era proprio Storia dell’arte, ammaliato dalla bellezza di opere create da mani abili, piene di messaggi importanti da trasmettere. Tra scontrini, interrogazioni e riflessioni sulla vita, arrivò l'estate anche quell’anno e, all’improvviso, l’amore. Leo si recò in campagna, dopo due anni in cui non era riuscito affatto a metterci piede perché inorridito da quell’immagine che lo perseguitava. Vi si recò con la speranza di ritrovare se stesso, di poter accettare ancora quella concezione di vita di cui la madre continuava a parlargli ma che, nonostante tutto, non comprendeva. Era divenuto taciturno, indossava una maschera sopra l’altra ed erano divenute così tante che, quando si guardava allo specchio, correva il rischio di non riconoscersi. Crescere era stato più difficile di quanto avesse creduto. Non avrebbe neppure voluto tornare bambino dato quello che il futuro, in un modo o nell’altro, gli avrebbe fatto comprendere: il sole riesce a scaldarti in modi diversi secondo la tua statura! Comunque ancora viveva una fiammella di speranza in lui... Si recò in campagna e lì conobbe quella che, dopo cinque anni, divenne la sua sposa. L’amò come pochi dei suoi coetanei avrebbero saputo fare, l’aiutò a comprendere quale fosse la strada più giusta da intraprendere, mentre lui continuò gli studi e lasciò che fosse lei a dare una mano alla madre: erano divenute subito grandi amiche, la sua adorabile mamma l’aveva accolta come una vera e propria figlia. Con lei a fianco, la vita di Leo migliorò come non si sarebbe mai aspettato, passò momenti indimenticabili, finalmente percepì nuovamente in sé quella voglia di vivere. Ma la vita è complicata e, nonostante le serate a ridere tutti insieme, il loro indimenticabile viaggio all’estero e la promessa di una famiglia, quella che divenne poi la sua ex moglie non ce la fece a rimanere con lui. Lei Ritornò in campagna, dalla madre e dal padre, dai suoi fratelli, gli stessi che non andavano mai a trovare insieme; decise di allontanarsi da lui, di ritornare ad una vita che, secondo lei, era l’unica che potesse intraprendere, nonostante la laurea, nonostante il suo lavoro che riusciva a gratificarla. Lo lasciò, in una calda mattina di giugno, con un biglietto sul cuscino: “Ti amerò per sempre, ma i tuoi demoni sono stati troppo per me.” Si portò via tutto ciò che era suo e strappò in mille pezzi il cuore di Leo. Ed era così che Leo, vestito elegantemente, se ne stava seduto nel suo studio, intento ad ascoltare il suo paziente e a prendere appunti su quel classico taccuino tipico dei film: stretto, con le righe molto spaziate tra loro. Erano alla quarta seduta e Steven, il suo paziente, si era già liberato di un grande peso dal cuore, raccontando dei suoi drammi. Si sentiva dal tono di voce, dalle sue pause, che era più rilassato e Leonardo, si sentiva appagato. Era riuscito a realizzare i suoi sogni lavorativi, aveva il suo studio, aveva i suoi pazienti, aveva la stima degli altri, orari che gli permettevano di dedicarsi anche a se stesso. Sua madre era davvero orgogliosa dell’uomo che era diventato, nonostante una sera gli avesse confessato che avrebbe pagato oro per rivedere almeno una volta quel bambino, quel Leo, che riusciva sempre a farle capire perché dovesse superare tutto il suo dolore... Il papà della sua mamma era morto di tumore dopo tre anni di lotta; sua madre, la nonna materna di Leo, aveva avuto lo stesso destino e la mamma gli aveva confessato di aver avuto la forza per andare avanti grazie a lui, alle sue favole, alla sua energia. Adesso lo guardava con gli stessi occhi sognanti, con gli occhi che solo una madre ha per il figlio, ma sentiva come una lama nel cuore a saperlo così spento. La vita era stata dura con lui, così come sa esserlo per molte altre persone; l’unica cosa che differenzia il valore del dolore è il modo in cui esso ti cambia dentro, ti trasforma. Leonardo non fece più ritorno al mare, da zia Mery, non andò più a trovare i nonni sepolti, mai rivide la sua amata, mai riuscì a stringere tra le braccia la bambina che avrebbe voluto chiamare Bianca, che avrebbe voluto veder crescere, a cui avrebbe insegnato a correre e a farsi baciare dal sole. Tutta quella fretta di crescere, dei suoi compagni, ancora non la comprendeva. Leonardo era divenuto uno psicoterapeuta, aveva rivisto sua madre felice, accanto ad un altro uomo, uno che non aveva sposato ma con il quale aveva condiviso moltissimo; aveva visto davvero tanti dei suoi pazienti riprendersi, ricominciare a vivere. Dopotutto, per quanto la vita fosse stata dura con lui, Leonardo lo sapeva, aveva solo assaporato il dolore con le labbra troppo ferite, con le mani piene di lividi, con la mente disorientata di fronte a tutto ciò che non gli era concesso comprendere. Quando la sera si sdraiava, faceva fatica a sorridere; aveva dei bei vestiti, una bella casa, degli amici, ma gli mancava il cuore, quel frammento che gli era rimasto non poteva bastargli. Ecco adesso Leonardo, piangendo dalla gioia, stringeva tra le braccia suo figlio, nato da poche ore. Era la risposta a tutto, era il motivo per cui avesse avuto senso arrivare fin lì, giungere a 43 anni di età con tutto quel dolore addosso: Edoardo era lì, con gli occhi ancora chiusi, piccolissimi, nonostante la sua anima fosse grandissima e pareva volesse esplodere... e c’era la sua mamma Greta a sorridergli, stanca per la fatica di averlo dato al mondo, felice per aver ricevuto questo dono, per essere divenuta mamma, per aver completato quell’ideale di famiglia in cui si crede. Passarono mesi e Leonardo accantonò un po’ il lavoro per godersi il suo piccolo, il bambino che pian piano avrebbe parlato, camminato, corso. Trascorsero tre anni: Edoardo strillava perché la zuppa non voleva mangiarla. E poi a sei anni e la maestra lo riprendeva perché colorava sempre fuori dai bordi! All’età di 52 anni, Leonardo salutò per l’ultima volta la madre, la stessa donna che era stata il suo primo ed eterno amore. Lo fece con Greta al suo fianco, con la stessa che avrebbe sposato nell'autunno che sarebbe arrivato, con la sua dama. E poi, quando Edoardo ebbe dieci anni, per la prima volta lo filmò: Edo correva tra le spighe di grano, con il sole ad accoglierlo, con l’aria fresca che un po’ sapeva di pesche. Leonardo ricostruì l’immensa casa in cui i suoi nonni si erano amati e gli avevano trasmesso quanto fosse essenziale gioire. Mattone su mattone, con due suoi amici, le diede una nuova forma e lì portò la famiglia ogni estate, finché Edo non ebbe diciassette anni e decise di partire per Parigi un weekend, poi a vent’anni per Londra, dove rimase per cinque anni. Leonardo andò in pensione, con la barba curata, gli occhiali sempre più spessi e nel cuore la certezza di aver aiutato moltissime persone ed istruito un suo successore a fare lo stesso. Perché ciò che lui amava era l’umanità, la sua anima, la sua psiche. E la sua, pian piano, pareva essersi guadagnata quel senso di serenità: l’attesa della moglie che rientrava dal lavoro, suo figlio che lo chiamava frenetico e gli diceva che, appena tornato, sarebbero ritornati su quella montagna. Sì, un’escursione che gli aveva regalato per i suoi 18 anni assieme a un discorso che aveva atteso a lungo a fargli e che aveva trasmesso al figlio come un augurio, quello di ricercare sempre quella voglia di vivere, nonostante spesso potesse apparire lontana. “Quella montagna” era divenuta così “la loro montagna”. Visse come Leo tantissimi altri giorni, altri come Leonardo... E, ormai anziano, dormendo sereno accanto alla sua amata, sorridendo nel suo bilocale in città, con le luci dei lampioni che si spegnevano, proprio nel cuore di quella notte tranquilla Edoardo lo svegliò, entusiasta, per ordinargli di correre da lui, di fare il più in fretta possibile: sì, perché Edo era diventato papà, e così Leo nonno di una bellissima bambina!

Revisione a cura di Tiziana Scuderi