LABORATORIO-GESTIONE DELLA CLASSE
RIFLESSIONI SULLA DAD
a cura della Prof.ssa Chiara Ortuso del Liceo Classico Oliveti di Locri
L’attuale emergenza sanitaria che, da oltre trenta giorni, ha investito il nostro Paese con tutta la sua complessità gestionale ed umana, obbligandoci a rivedere i consueti canali di comunicazione e di interrelazione sociale, ha determinato la necessità di adottare, nell’ambito della scuola di tutti gli ordini e gradi, la cosiddetta Didattica a distanza. Personalmente ritengo che la stessa DAD, sperimentata attraverso il continuo utilizzo di lezioni dialogate su Meet, di audio e video conferenze pubblicate sulla piattaforma Google classroom, denoti innumerevoli svantaggi per ciò che da sempre ha rappresentato, alimentandone il senso, il cuore della trasmissione di un messaggio che si propone di raggiungere, mediante svariati codici e linguaggi (non solo verbali ma metalinguistici e paraverbali), il discente, conquistandone l’attenzione, la fiducia, l’interesse. L’essenziale strumento per mezzo di cui si realizza la piena condivisione dell’ascolto e della comprensione dei bisogni, così significativi nella costruzione del rapporto docente-studente, appare infatti sempre più frammentato da dialoghi interrotti, frasi non dette, gesti non colti, occhi celati da una webcam spenta. L’empatia e l’emotività non riescono ad emergere in tutta la loro profonda bellezza attraverso gli schermi opachi di un computer, di un dispositivo, molto spesso, abbandonato da adolescenti impigriti, trascinati dall’inerzia dell’esasperazione da chiusura forzata e isolamento tra le proprie mura domestiche. Eppure, alle volte, qualche emozione sembra, d’improvviso, trasparire da quelle voci che si odono sullo sfondo di ciò che resta dell’ora di filosofia, della lezione di storia. Qualche occhiata compare all’interno del riquadro delle telecamere accese su richiesta dell’insegnante che cerca, disperatamente, di aprire un varco su un mondo sino a qualche tempo prima compreso, conosciuto nella, seppur costante, sorpresa dell’inatteso. Perché la relazione si nutre soprattutto dell’esperienza dell’inaspettato, dell’imprevisto, di quel momento in cui il docente osserva gli sguardi che lo scrutano, interrogandolo tacitamente, sulla strada da seguire, sul sentiero da intraprendere. Un istante socio-relazionale che la DAD non riesce completamente a coprire, a vivere. E, tuttavia, ad un’analisi più attenta e meno immediata, è proprio quella medesima DIDATTICA A DISTANZA A SALVARCI, consentendoci, nel bel mezzo di quest’incubo contemporaneo che ci assale, annegando negli spettri della malattia e della solitudine, di rimanere ancorati ad un filo di speranza. Ad accenni di sorrisi, alle parole interrotte che appaiono e scompaiono nelle finestre di piccole-grandi anime, di questi ragazzi di oggi, capaci di farci sorridere ancora; in grado di nutrire le emozioni di ognuno di noi: dell’essere insegnanti sempre. Anche e soprattutto ai tempi del coronavirus.
IL RIENTRO A SCUOLA DOPO PA PAUSA FORZATA...
Una peste contemporanea, un morbo che ha invaso le nostre anime, ancor più dei corpi, un evento, quello a cui assistiamo da un mese a questa parte, capace di “trasvalutare" ogni valore, ciascun riferimento ad una plausibile e possibile “base sicura”. Alla luce di tale considerazione ed in virtù del ruolo fondamentale di un docente chiamato a scontrarsi, senza sosta, con la complessità del reale, con le difficoltà di un mondo abitato da esseri che progettano la loro vita nel contesto dell’ex-sistere (direbbe Martin Heidegger), sorge la necessità di interrogarsi circa il senso da attribuire ad una paradossale assurdità, ad un’interruzione del significato stesso, a questo abisso in cui viviamo come sospesi in uno iato capace di inghiottire ogni assioma, ciascuna coordinata spazio/temporale. E allora sorgono spontanei fiumi di interrogativi. Come ritrovare, mi chiedo, la prossimità di un tempo che sembra aver smarrito ogni categoria (penso a Kant e alle sue forme a priori) soggettiva ed individuale per andare a spalmarsi nella liquidità di giorni ed ore perdute nella scansione quantitativa di istanti, di attimi inabili, come “perle tutte uguali”, a raccontare la quotidianità dello spazio? Di un “non luogo” ridotto a scarne mura di cinta? In che modo restituire colore, valore, sapore, specificatamente discutendo, in merito ad una qualsivoglia strategia metodologica o didattica destinata a scontrarsi, andando in frantumi, con il bisogno di spiegare a questi adolescenti un po' complessi, a questi ragazzi che giocano a fare gli uomini in atto, ai giovani spesso acerbi ed in potenza del nostro tempo, una direzione, un sentiero, una strada da intraprendere nel soffocante buio di orientamento? Cosa farò, ancora, continuo a chiedermi, per riannodare il filo dell’interrelazione con i miei studenti, non appena ci sarà data la possibilità di rientrare nelle aule intrise da quell’aria un po' viziata e calda delle verifiche orali, delle spiegazioni di Hegel e Rousseau, dello spirito a cavallo di Napoleone Bonaparte, della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini; l’atmosfera della scuola, insomma. Quella vera, quella vissuta in prima persona, quella che non è sopraffatta dalla marea di pratiche burocratiche campeggianti negli uffici di segreteria. Perché l’anima reale degli istituti scolastici siamo Noi, Noi docenti. Siete Voi, voi dirigenti, Voi personale Ata; siamo Noi e Voi con i nostri ragazzi. Dunque cosa mi inventerò, proseguo nelle mie elucubrazioni mentali, a maggio, o in definitiva a settembre, ipotizzando il triste destino di procrastinare la possibilità di terminare l’anno scolastico in presenza? E, d’improvviso, mi rispondo. Mi dico che quando tornerò tra le mie classi, fra quei banchi segnati dalle storie individuali dei loro più svariati e divertenti inquilini, forse, tenterò di ricercare insieme a loro una parvenza di senso, un lume che possa spiegare ciò che, di primo acchito, sarebbe impossibile, inutile provare a dire, a pronunciare. Potrei, ancora, concludere, in un estremo sforzo di progettazione, che, probabilmente, al rientro ripeterò ai ragazzi tutto il programma di storia e filosofia; tutte quelle nozioni che, a tentoni, dal 3 marzo a questa parte, sto cercando loro di veicolare tramite piattaforme, video e audio-lezioni; potrei, poi, finanche aggiungere che verificherò ciò che hanno realmente appreso tra un incontro su Meet e un questionario di storia moderna. Tuttavia ad oggi, dicendo ciò, mentirei. Mentirei a me stessa. Così, in barba ad ogni pensabile ed innovativa trovata didattica, a dispetto di qualunque linea di pensiero socio-psicologica, secondo il suggerimento di quel daimon socratico che saltuariamente fa capolino in me, ritengo di poter affermare, senza ombra di dubbio, quanto segue: la prima cosa che farò in aula per riaffacciarmi ai volti degli studenti sarà quella di sedermi innanzi a loro, fissandoli negli occhi. Sì, io li guarderò, li osserverò, verosimilmente commossa e con qualche lacrimuccia nascosta dietro un ritrovato sorriso, qualche secondo, molti minuti. Mi sembrerà, in tale maniera, di inchiodarmi ai loro sguardi, alle loro pupille, ai loro gesti per poterli di nuovo ritrovare e toccandoli, riscoprendoli, ritroverò, ne sono certa, dentro di me un urlo di sincero entusiasmo: la gioia dell’essere esattamente lì. Qui. Ancora una volta, tutti definitivamente insieme. Congiuntamente coesi nell’affrontare un’altra giornata di scuola. Uniti, come certamente non lo siamo stati mai, nella nostra avanzante ora di lezione; un’ora che, come sempre, semplicemente e normalmente, inizierà con il suono stridulo della campana; di una voce narrante un tempo ed uno spazio lungamente attesi e, d’un tratto per incanto, finalmente ritrovati.