RECENSIONI

Lᴀ Vᴏᴄᴇ ᴅᴇʟ Rᴇᴄᴇɴsᴏʀᴇ

SCRITTURA VIVA

 

COME ALLODOLE SULL’ALLORO

di ALESSIA CERNE

GENERE: NARRATIVA

RECENSIONE CRITICA

Quello dei disturbi dell’alimentazione è un mondo molto complesso. Alimentazione e affettività sono strettamente legate. Il primo cibo che assumiamo, non dimentichiamolo, è il latte materno. L’atto della suzione per alimentarsi, nel neonato, coinvolge una varietà di stimoli sensoriali: olfattivo, tattile, visivo, che sono strettamente connessi alla gratificazione affettiva. Il cibo è spesso uno strumento utilizzato inconsapevolmente o consapevolmente dagli adolescenti per manifestare la propria presenza, il proprio esserci – in un determinato modo e secondo i propri tempi – e il proprio malessere. La condizione adolescenziale, soprattutto nella nostra società in costante cambiamento che sottopone a sfide sempre più complesse, è messa sempre più a dura prova. L’adolescenza, fase già di per sé complessa e delicata, in quanto rappresenta quell’importante passaggio preparatorio del soggetto verso l’età adulta, in una società dove tutto va di fretta e il tempo per assolvere a tutte le incombenze quotidiane non è mai sufficiente, risente spesso di uno stress adattativo-evolutivo che in diverse situazioni può portare a una condizione di resa, di stasi, in quanto ci si percepisce non all’altezza delle richieste della realtà circostante; dove per realtà non si intende tanto il macrocosmo, ma anche e soprattutto il microcosmo. Quando si parla di microcosmo il riferimento è, infatti, alle relazioni familiari e, nel caso dei disturbi dell’alimentazione, solitamente al rapporto affettivo dell’adolescente, generalmente della ragazza con la madre. Quando l’adolescente percepisce una impossibilità di creare relazioni affettive solide e costruttive con le figure affettive di riferimento, ecco che preferisce ristagnare nella cosiddetta comfort zone, una sorta di recinto all’interno del quale ci si protegge e ci si sente al sicuro rispetto alle richieste del mondo circostante. Più specificamente la Psicologia Comportamentale definisce la comfort zone come quella condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio. Tutti chiaramente hanno le proprie zone di comfort, ma ciò che differisce tra un soggetto sano e uno con problematiche è proprio la capacità di abbandonare, quando richiesto, questa zona per potersi relazionare efficacemente con il mondo esterno.

È proprio di questo che tratta il romanzo di Alessia Cerne (WritersEditor, pagine 170), Come allodole sull’alloro; un romanzo intenso, avvincente e nello stesso tempo drammatico perché affronta il delicato problema dei disturbi alimentari, in particolar modo quello della bulimia. A chi non piacerebbe trascorrere una vita senza ansie, stress, prove, sfide? Chi non preferirebbe potersene stare in disparte senza assumersi delle responsabilità e senza dare conto a giudizi, critiche e altro? La condizione di adulto segna proprio l’assunzione di responsabilità, la capacità di equilibrare le critiche, di formarsi un proprio carattere che farà da “scudo” agli scossoni della vita; e l’adolescenza rappresenta una fase preparatoria all’età adulta. La crescita affettiva e relazionale, così come la spiega la psicologia, avviene in base all’identificazione del ragazzo/ragazza con il genitore dello stesso sesso. L’identificazione è un processo delicato che spesso sottopone l’adolescente alla cosiddetta ansia da prestazione, soprattutto quando il modello identificativo è difficile da raggiungere. Una madre ben organizzata, efficiente, sempre all’altezza delle situazioni potrebbe, ad esempio, rappresentare per un adolescente un forte motivo ansiogeno. In questo caso si forma all’interno dello stesso adolescente un sentimento ambivalente nei confronti della figura genitoriale di riferimento: da una parte si ama istintivamente il proprio genitore perché è colui che ci ha introdotto nel mondo con il primo attaccamento relazionale e affettivo, dall’altra parte lo si “odia” perché rappresenta il suo senso di fallimento, in quanto l’adolescente percepisce una incapacità di assomigliargli. L’adolescente si considera, quindi, incapace, non all’altezza, fuori luogo. E qui entra in scena quel meccanismo di difesa della comfort zone che è sì quella zona neutra, riparata, dove nulla di spiacevole potrebbe accadere, ma è anche quel posto in cui la percezione di sé e del mondo circostante crea i suoi fantasmi. E in effetti il romanzo della Cerne è tutto tessuto proprio su quella percezione personale, sfalsata, della protagonista che si rinchiude nella sua “gabbia”; percezione che ha comunque dei riferimenti oggettivi nella realtà: la separazione dei suoi genitori e il modo d’essere della madre completamente diversa da lei. È palese, infatti la sofferenza della protagonista, Alma, per l’assenza della madre, professionista di rilievo che va sempre di fretta, è perfettamente organizzata e ha l’ossessione del tempo. Il problema forse sarebbe stato leggermente diverso se la genitrice avesse svolto qualche altra professione invece della psicologa, in quanto fare la terapeuta dovrebbe comportare una maggiore comprensione e conoscenza di determinate problematiche. Infatti, una domanda ricorrente della protagonista è come mai sua madre abbia il tempo per ascoltare i suoi pazienti e non sua figlia che reclama il suo affetto e che continua ad essere invisibile agli occhi di lei. Richiesta d’affetto che non è mai palesata a parole dalla protagonista con frasi del tipo: «Ho bisogno di te, del tuo affetto, del tuo esserci» – anche se un figlio non dovrebbe mai lesinare affetto – bensì con atteggiamenti di “rassegnazione” di sofferenza interiore, di chiusura nella sua “gabbia” – «Amavo la mia vita trascorsa nella gabbia, lì dentro mi sentivo al riparo da tutti; venti metri quadri arredati in serenità, di isolamento e di “non voglio dare giustificazioni a nessuno fuori da qui.”» – e con quel rapporto patologico, intimo con il cibo – a causa della percezione falsata del proprio essere – considerato una via di fuga che in realtà rappresenta la sua prigione, quella schiavitù che non le consente di relazionarsi col mondo in modo costruttivo. Se il rapporto con la madre rappresenta il fulcro del problema, il legame con suo padre, un’amicizia speciale con una ragazza e qualche conoscenza inaspettata rappresenteranno per la protagonista la possibilità di iniziare a desiderare quel cambiamento per il quale solo lei dovrà trovare la forza per metterlo in atto.

Un romanzo, quello della Cerne, che molto fa riflettere sulla complessità dell’animo umano, sulla delicatezza della fase adolescenziale, sulla diversità di ognuno, ma anche su quei timori, difficoltà, fallimenti che ci rendono propriamente umani e sulla necessità di chiedere aiuto qualora se ne sentisse il bisogno. Un'opera di spessore. Un libro assolutamente utile. Consigliatissimo!

Teresa Laterza

 

 

INTERVISTA

Come nasce l'idea di questo romanzo?

La scrittura della storia di “Come allodole sull’alloro” è nata perché sentivo un forte desiderio di raccontare una vicenda dallo sfondo psicologico e drammatico ma soprattutto perché volevo cimentarmi in un esperimento che rendesse vivi sentimenti controversi e contrapposti come lo smarrimento ed il disagio interiore, che molto spesso provano i ragazzi​ in età adolescenziale, in quel momento in cui si sentono inadeguati e non accettati dagli altri e dalla propria famiglia. L'idea é nata perché mi sono sempre interessata al problema dei disturbi alimentari, tanto discussi e affrontati quando ero adolescente e oggi, completamente ignorati.​ Ho scritto questo romanzo drammatico per raccontare di un disagio spesso represso, negato dal soggetto malato che comporta uno scompenso della personalità che porta gradualmente ad un vero e proprio scostamento dalla realtà. Ho voluto dare voce ad una testimonianza del narratore che si sviluppa come un impegno culturale, di contributo alla diffusione di una coscienza civile, che vuole essere un invito ad una riflessione più profonda sui disagi adolescenziali e al ruolo genitoriale ormai sempre più in crisi.

Cibo e affettività... il suo parere a riguardo.

In generale i disturbi alimentari sono associati ad altre patologie di tipo psichiatrico, in particolare la depressione, i disturbi d'ansia, gli abusi e le dipendenze, fino ai disturbi di personalità. A colpire la mente e quindi a provocare un'intensa sofferenza psichica, questo tipo di disturbi, coinvolgono il corpo con delle complicanze fisiche talvolta molto gravi.​ Il cibo può essere considerato come un vero e proprio strumento di comunicazione di un disagio. È un campanello di allarme che indica uno stato emotivo particolare e questa tendenza ad attribuire all'uso che se ne fa del cibo, una valenza affettiva, lo riscontriamo fin da bambini. Da sempre siamo stati abituati a coronare i cibi che ingeriamo di valenze affettive che ci portiamo poi dietro da adulti; così ad esempio, un bel pezzo di cioccolata ci rende meno "amara" una difficile situazione da affrontare, un'abbondante porzione di torta ci farà credere di poter annullare certi nostri dispiaceri, le continue fughe nel frigorifero di casa, ci illuderanno di ristabilire il nostro stato d'animo alterato. Ingerire cibo in quantità è come nutrirsi di sentimenti di cui ci sentiamo privati.

Disturbi dell'alimentazione e percezione di sé...

I pazienti con disturbo alimentare hanno pensieri di valutazione del loro corpo e del loro modo di mangiare, attribuiscono a questi pensieri un determinato significato e si soffermano su come mantenerli o modificarli. Ad esempio, quando il proprio corpo è valutato come grasso, allora significa che si è deboli, stupidi, senza speranza.​ Di conseguenza il pensiero successivo è come fare a cambiare questa situazione e ha inizio la pianificazione di come evitare questa particolare esperienza del proprio corpo e di sé. La stessa conclusione si presenta quando la valutazione è positiva: “Sono magro, allora sono forte, quindi devo mantenermi così". La percezione di sé si modifica e cambia in funzione del peso che il nostro corpo assume, come si trasforma e come diventa; si assiste ad un'alterazione della visione di sé, fino ad arrivare ad un vero e proprio scostamento della realtà, degli oggetti e delle persone con cui il malato viene a contatto.

Qual è il messaggio più significativo che ha voluto trasmettere con il suo romanzo?

Con questo romanzo ho voluto dare voce ad una sofferenza interiore, urlata dalla protagonista attraverso un megafono. La sua potenza arriva diritta al cuore di chi la sa ascoltare. La solitudine di Alma e la reclusione nella "gabbia" in cui vive rappresentano gli unici mezzi a disposizione per manifestare il suo malessere e attraverso i quali, lanciare all'esterno un ultimo grido di aiuto.​ Il messaggio che ho voluto trasmettere è quello di non arrendersi alla malattia ma cercare sempre, con tutte le forze, di gridare il proprio malessere, di chiedere aiuto in qualsiasi momento, anche quando la fine sembra vicina e non si intravvede la via d'uscita perché chiedere aiuto, è un primo passo verso la consapevolezza e la guarigione.

A proposito del suo libro...

Personalmente credo che ogni persona abbia le proprie fratture e le proprie fragilità. E, spesso, sono proprio queste fratture che ci permettono di essere le persone uniche che siamo, senza che qualcuno cerchi di cancellarle e di normalizzarci.​ Da questo punto di vista, “guarire” non significa tanto smettere di focalizzarsi sul cibo – che probabilmente resterà per sempre un punto di fragilità, ciò cui si ricorre quando si è stanchi, stressati, malinconici, delusi o nuovamente prigionieri dello sguardo altrui – ma imparare ad ascoltarsi: mettersi su “pausa”; darsi tempo e pazienza; accettare che il presente possa a volte arrotolarsi su stesso, addirittura riavvolgersi e ripiegarsi sul passato, prima di ripartire.​ Nel mio romanzo ho cercato di raccontare proprio questa "normalità", rappresentata dalla vita di una famiglia in difficoltà, di rapporti difficili tra genitori e figli e tra la coppia stessa, per concludere che​ anche​ il malessere, il disagio psicologico, possono essere fasi di passaggio, prove di iniziazione, crisi che sono anche possibilità di crescita e di costruzione di una propria identità.​

Ha in cantiere qualche altro lavoro letterario?​ ​

Ho iniziato a scrivere un altro romanzo, genere drammatico-grottesco, con risvolti noir.​ Diversamente da “come allodole sull’alloro” in cui ho scelto deliberatamente di inserire pochi personaggi​ nella storia, per focalizzare il punto di vista sulla protagonista, in questo ho scelto di raccontarla da diversi punti di vista e far parlare molti personaggi.​ Mi sto cimentando in una scrittura che​ disorienta il lettore riguardo al punto di vista che cambia continuamente, a seconda del personaggio che faccio muovere all'interno del tessuto testuale. Posso definirlo un romanzo corale.

Gli indirizzi link di Alessia Cerne

https://bit.ly/30PxBSO

https://www.spreaker.com/user/writerseditorradio/penne-nascoste-alessia-cerne-come-allodo

https://www.facebook.com/alessia.cerne

 

BIOGRAFIA

Alessia Cerne nasce a Roma, il 16 agosto 1972. Ha studiato lingue e letterature straniere all’Università e sin da bambina si dedica alla scrittura, stimolata dall’ambiente artistico della famiglia di origine, proveniente dal mondo del cinema. La passione per la scrittura si rafforza quando scoprirà autori contemporanei inglesi che ha amato profondamente e da cui trae ispirazione per le sue storie grottesche, dalle ambientazioni noir con risvolto psicologico. I temi maggiormente trattati dalla sua scrittura sono cronache a tratti ossessive di storie di vita tormentate, di disordini mentali che minano la tranquillità dell’essere umano. Da sempre scrive e pubblica racconti, vincendo vari concorsi letterari nazionali ed internazionali. “Come allodole sull’alloro” è la sua prima pubblicazione con la casa editrice WritersEditor.