RENZO FAVARON: L’ASPETTO DELLA SIBILLA E IL RICATTO DEL PANE GENERE: NARRATIVA (RACCONTI DI FORMAZIONE)

RECENSIONE

Felice colui che ha trovato il suo lavoro; non chieda altra felicità. (Thomas Carlyle)

Felici quelli che sono fatti per quello che fanno. È la prima felicità in terra. (Fabrizio Caramagna)

Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita. (Confucio)

Una interessante carrellata di racconti quella che ci propone l’autore Renzo Favaron con la sua opera L’aspetto della sibilla e il ricatto del pane–Novellette veneziane e altre storie (Dialoghi Edizioni, anno di pubblicazione 2022, pagg. 170) in cui sono descritte le vite dei protagonisti che ruotano, si intrecciano o comunque vengono influenzate dalla questione lavoro. Il lavoro che occupa, preoccupa, aliena, distrugge, in qualche raro caso soddisfa e in altri fornisce anche un “alibi” ai personaggi raccontati. Le storie narrate sono incisive – alcune in modo particolare – avvincenti e ben strutturate. L’autore ha saputo descriverle abilmente tanto da consentire al lettore di immaginarsi gli scenari e percepirsi al centro delle scene, non solo in senso “fisico” ma soprattutto in riferimento alle dinamiche e ripercussioni psicologiche che la realtà lavorativa dei personaggi, e di chi circonda il loro mondo, scatenano sul “quieto vivere” o meglio sulla loro quotidianità. Un argomento scottante, controverso, quello del lavoro, che l’autore ha saputo ricamare amalgamando periodi storici – che tratteggiano le tendenze della società dell’epoca – e caratteristiche psicologiche, individuali dei protagonisti coinvolti. L’Opera stimola importanti, nonché profonde, riflessioni su questioni esistenziali: l’essere e l’avere, l’essere e il fare, la dignità e l’assoggettamento a un ordine vincolante, la necessità e la libertà. È la questione dell’identità, che si esprime con l’esigenza della realizzazione, che emerge dai racconti di Favaron. E già nella prima storia, intitolata Il ricatto del pane, si fa pressante l’interrogativo: si può giustificare tutto con la necessità?

Impressionanti le parole del suddetto racconto:

«Papà svolgeva semplici lavori manuali. Uno di questi era di insaccare della polvere di PVC; un altro era di pulire e curare la manutenzione di enormi vasche. Cose da fare di merda, se così si può dire. Era qualcosa da fare, però, e lui lo faceva… In Italia, del resto, il passaggio da una civiltà contadina a una industriale era avvenuto dalla notte alla mattina, e il prezzo da pagare, al di là degli indubbi vantaggi economici, per alcuni sarebbe stato inevitabilmente più alto del previsto. Una mattina papà si lamentò perché si sentiva le mani e i piedi freddi… si scoprì che aveva un problema di vasodilatazione… a distanza di tempo sono venuto a sapere che era affetto dal morbo di Raynaud… Quello che ci cambiò la vita, a lui quanto a me e a mamma, fu qualcosa di ben più grave: a un certo punto… i polpastrelli iniziarono a squamarsi. Non solo i polpastrelli, ma poi anche la pelle intorno alle dita cominciò a squamarsi, formando come delle crepe che lasciavano scoperte delle parti di carne viva. In poco tempo papà si ritrovò a provare un dolore atroce ogni volta che doveva afferrare e stringere qualcosa… Come si può ben immaginare era una cosa a dir poco invalidante, ed è stato più volte ricoverato nel reparto di dermatologia dell’ospedale di Padova… A causa delle lunghe assenze, inutile dire che perse il lavoro, quello stesso che avrebbe dovuto salvargli la vita… non si sapeva degli effetti tossici del CVM – cloruro di vinile monomero».

Il fatto di avere figli, di non sapere come arrivare a fine mese, di doversi sfamare, può in sostanza giustificare la “scelta” di svolgere un lavoro alienante o pericoloso per la propria incolumità fisica e/o psicologica? Fino a che punto si possono accettare compromessi per ottenere ciò che dovrebbe essere garantito per diritto? Lo stesso autore, in riferimento alla fortuna, scrive: «Esiste un’unica sfortuna: non avere nulla da fare o essere costretti a fare qualcosa di sbagliato», una frase che si presta a una interessante chiave di lettura. Al centro di questa riflessione giocano le scelte di ognuno di noi che approcciandoci al mondo adulto dobbiamo valutare le vie possibilmente percorribili per poter divenire persone non solo autonome, ma soprattutto realizzate. E, certo, la realizzazione non è solo quella retribuzione a fine mese chiamata stipendio, bensì la soddisfazione di essere riusciti a svolgere bene il lavoro che si è scelto. Ed è qui il problema: la nostra società quasi mai consente all’individuo di fare ciò che è portato a fare. Con l’avvento dell’epoca industriale, la realtà capitalistica, la necessità delle grandi industrie e delle fabbriche (preoccupate solo del profitto), l’uomo si è sentito sempre più snaturato, sradicato dalla sua essenza per divenire oggetto, pezzo di un ingranaggio di un intero sistema. Dove finiscono i sogni, le aspirazioni, i desideri, le peculiarità e abilità, le propensioni artistiche dell’individuo di fronte alle richieste di una società spietata, interessata solo al guadagno e al perpetuarsi di una burocrazia e di meccanismi che sono il fine della sua stessa sussistenza? Nonostante la “durezza” delle situazioni descritte, che lasciano un senso di impotenza, ma che possono far maturare in chi legge anche una sana voglia di riscatto, l’autore, in alcuni racconti, riesce anche a far sorridere e divertire il lettore con certe riflessioni e battute. Sorriso, spesso amaro di chi conosce bene le furbizie, gli stratagemmi del mondo del lavoro e dei datori di lavoro che avvantaggiano solo se stessi. Un’opera pregnante, per la capacità di rendere in modo vivido al lettore la descrizione di fatti, non solo reali – come nel caso del racconto Ciribiribin che trae spunto da fatti realmente accaduti tra il 1938 e il 1943 – ma anche inventati, e di spessore per i risvolti psicologici, nonché per la necessità di trovare risposte alle richieste di libertà dell’essere umano in un mondo che sempre più tende a schiacciare e reprimere ogni sacrosanta libertà individuale.

Libro assolutamente consigliato.

Marisa Francavilla

Nella recensione è riportato, con il consenso dell'autore, un passo del racconto Il ricatto del pane.

INTERVISTA

Cosa rappresenta per lei la scrittura?

Gottfriend Benn ha detto che chi non si esprime, non esiste. Dunque, la scrittura per me è il mezzo attraverso il quale esistere entrando in un pagina, anche se penso che un narratore non è solo un modo di fare. Comunque, uno dei problemi è mettere a punto un linguaggio marcatamente espressivo, intendo capace di dare sostanza concreta alle cose, ossia che abbia peso e spessore. Penso, infatti, che prima delle storie, si debba lavorare molto sull'uso della lingua, la quale deve mostare le cose e non indulgere in narrazioni meramente descrittive. Per questo lavoro è molto importante la lettura, ma cito solo un libro che è la quintessenza della scrittura: Madame Bovary.

Com'è nata l'idea di questo libro?

La misura breve è di sicuro qualcosa che mi si attaglia. Ogni racconto è un po a sé e tuttavia a legare l'uno all'altro c'è un filo rosso a cui è sottesa una narrazione il cui intento è quello di definire un'identità. Ciò vale (accade?) quando la protagonista di un racconto viene a sapere che non è la figlia dei genitori che conosce o quando un giovane è alle prese con un nuovo lavoro di cui non è chiara l'attività e la mission del servizio in cui opera. Oltre a ciò, forse non è inutile dire che in me ha agito una volontà a tratteggiare alcuni aspetti irritanti della società civile. Dettaglio importante: ogni storia si può anche leggere quasi come un romanzo di formazione in miniatura.

Quali sono i messaggi più significativi che ha voluto trasmettere con la sua opera?

Non so bene quali messaggi veicolano i miei racconti. In prima battuta non mi interessano questioni astratte, problemi e via discorrendo. Mi importa parlare, invece, di persone e di situazioni concrete. La narrativa opera principalmente nella realtà, anche quando i personaggi, rispetto al presente, non sono vicino a noi e vivono in epoche passate o future. Essenziale è che un racconto progredisca in spessore e trasmetta una pienezza di significato. Il che non può avvenire che mostrando, calando l'azione e i personaggi nel concreto. Se c'è un messaggio, questo è incorporato nel significato del racconto.

Quali sono secondo lei le caratterestiche che non dovrebbero mai mancare a uno scrittore?

Negli ultimi anni mi sembra che sia prevalsa la tendenza a pubblicare. Non scrivere, ma essere uno scrittore. Al di là di ciò, uno scrittore dovrebbe avere una visione capace di incrociare più elementi di realtà in un'immagine o in una situazione. Compito di chi scrive non è riferire, ma presentare (si parla con Tizio, non di Tizio). Giorgio Morandi disegnava delle bottiglie, ma le bottiglie sono immagini che tutti possono riprodurre (con un po' di tecnica). Attraverso la pittura l'artista riempie invece la scena e dispone gli oggetti in maniera tale che l'opera dipinta, dopo un lungo lavoro, riesce a trasmettere qualcosa di musicale e di vivo, ossia il contrario di ciò che siamo soliti associare a una raffigurazione di oggetti inanimati. Chi scrive, analogamente a Giorgio Morandi, dovrebbe avere cura della bontà di quel che crea, nella forma non meno che nella sostanza. In questo senso non dovrebbe mai subordinare il suo lavoro a un'ottica di mercato, ma essere piuttosto sostenuto dalla speranza e dal suo stesso bisogno di allargare la coscienza.

Ha in cantiere qualche altra opera?

Non proprio nell'immediato. Attualmente sono impegnato a tradurre da un'opera poetica di un autore francese.

BIOGRAFIA

Renzo Favaron è nato nel 1958. Dopo un'iniziale plaquette in lingua, nel 1991 pubblica in dialetto veneto Presenze e conparse (Stamperia Valdonega – Verona). Del 2001 è il romanzo breve Dai molti vuoti (Manni – Lecce). A partire dal 2002 pubblica alcune minuscole plaquette presso le edizioni Pulcino-Elefante. Nel 2003 pubblica Testamento (LietoColle – Faloppio), un'altra raccolta di poesie in dialetto, nel 2006 Di un tramonto a occidente (LietoColle – Faloppio) e nel 2007 Al limite del paese fertile (Book Editore – Bologna ). Il racconto La spalla (Robin B d V – Roma) è del 2005. Del 2009 è In cualche preghiera, LietoColle (vincitore del Premio Salvo Basso). Segue nel 2011 Un de tri tri de un, Atì Edirore – Brescia (che raccoglie venti anni di poesia in dialetto) e, nel 2012, Ieri cofa ancuò (La Vita Felice – Milano). Del 2014 è il racconto breve Esordi invernali (CFR edizioni – Piateda). Segue Balada incivie, tartufi e arlechini (Arcolaio – Forlì), Diario de mi e de la me luna (LietoColle – Faloppio), Piccolo canzoniere più bugiardo che vero (Controluna – Roma) e Teatrin de vozhi e sienzhi (Ronzani – Vicenza). L'aspetto della sibilla e il racconto del pane è l'ultima opera pubblicata. Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.